Quando ho avviato per la prima volta Echo, non sapevo cosa aspettarmi. All’inizio, è tutto molto calmo: ci si risveglia da un sonno criogenico durato circa un secolo nelle vesti di una ragazza di nome En. La determinazione è ciò che la guida verso una misteriosa stazione spaziale per salvare una persona a lei cara, finita nei guai a causa sua.
Scendendo nelle profondità di questo posto abbandonato e tormentato dalla neve, si entra nel Palazzo, un edificio immenso, anch’esso disabitato e privo di illuminazione. La prima ora di gioco serve a porre le basi della narrazione attraverso i dialoghi tra En e London, un’intelligenza artificiale a cui da poco è stato assegnato il compito di dare supporto alla ragazza. Il Palazzo si presenta come un luogo sfarzoso e ricco ma molto dispersivo, in quanto le stanze, assieme ai suoi arredi e le sue decorazioni, si ripetono in schemi identici. La gestione dell’illuminazione, che in questa sezione avviene tramite i faretti della tuta di En e i loro riflessi sulle superfici lussuose, è qualcosa che affascina davvero tanto e, assieme al design dei suoni, crea un’atmosfera al limite tra l’ansiogeno e l’onirico.
Questa prima fase sognante è destinata a terminare proprio nel momento in cui rischia di annoiare, per immergerci in qualcosa di nuovo. Una volta ripristinata la corrente, se così possiamo chiamarla, il Palazzo comincia a mostrarci la sua vera faccia, inondandoci di luce e dando i primi segni di vita. Scopriremo subito infatti che c’è qualcosa che non va attorno a noi, che non siamo più soli. Delle creature gelatinose cominciano ad apparire sul pavimento e alcuni blackout si susseguono sempre più velocemente, provocando mutazioni negli esseri, che giungono ad assumere le sembianze di En.
Qui inizia il gioco vero e proprio. Le copie di En sono aggressive e sarà nostro compito fare di tutto per non farci prendere e riuscire a proseguire la discesa nei meandri del Palazzo. Il problema è che “fare di tutto” è un’arma a doppio taglio. Si scopre presto, infatti, che il Palazzo ha un sistema di registrazione che traccia tutte le nostre azioni per trasferire queste informazioni alle sue manifestazioni fisiche, gli Echo. Si susseguiranno quindi cicli composti da due fasi alterne: una di luce, durante la quale i nemici “imparano” da noi; una di buio, che dura pochissimo e durante la quale nulla verrà registrato. Dopo il reset del ciclo, gli Echo metteranno in pratica ciò che hanno assimilato. Il sistema di tracciamento del Palazzo però ha una limitazione: può mantenere in memoria solo le azioni registrate nell’ultima fase di luce, tutto il resto verrà cancellato nel momento di reset del ciclo.
A parole può sembrare difficile da comprendere, ma è un sistema davvero intuitivo che trasforma i livelli in arene che fanno da sfondo a partite di guardie e ladri. En può sbarazzarsi dei cloni utilizzando la sua pistola multiuso oppure sfruttando l’ambiente circostante per tagliargli la strada. Un esempio di ciò lo possiamo vedere quando i nemici non possono attraversare zone bagnate dall’acqua, scavalcare ostacoli o interagire con porte e ascensori, perché non l’hanno imparato da noi, che ci siamo astenuti dal fare una o più di queste azioni nel ciclo precedente. È importante quindi pianificare ogni mossa e non lasciarsi prendere dall’istinto. È una continua partita a scacchi tra i cicli. L’ansia ci sarà sempre sul collo, mentre attendiamo i blackout per poter correre all’impazzata e all’occorrenza sparare impunemente sui cloni, senza pensarci due volte. Il blackout sarà il nostro miglior amico, la zona franca in cui si azzera la responsabilità.
La libertà di approccio è grande e viene ben stimolata dal design delle mappe, veri e propri gioielli di progettazione e di composizione visiva. Vuoi procedere in modo silenzioso strangolando alle spalle gli Echo? Preparati ad essere preso di sprovvista, perché la tuta (unico elemento di HUD presente nel gioco) non rileva i movimenti silenziosi degli altri. Vuoi colpire velocemente i nemici con l’arma da fuoco per raggiungere la meta senza troppe deviazioni? Al prossimo turno ti ritroverai nel far west. La cosa più interessante è che per generare queste situazioni basta effettuare una determinata azione soltanto una volta, per vederla ritorta su di noi, moltiplicata per il numero di Echo in circolazione che, per inciso, sono davvero tanti.
Echo ti pone in una situazione controversa, nella quale il vero nemico è ciò che fai, sei te stesso. Non puoi prendere nulla alla leggera, devi essere uno stratega e pensare sempre in anticipo, precluderti delle opportunità per sfruttarle come vantaggio nel prossimo ciclo, cambiando di volta in volta i programmi d’azione. Il problema, però, è che non sai mai di cosa avrai bisogno dopo, quale sarà la struttura della prossima mappa e quali difficoltà porterà con sé. Una frase ricorrente nel gioco, funge da monito in proposito : “The flesh and the souls shall enter through separate doors. Only the strong of mind and body will reunite as whole” (la carne e l’anima dovranno entrate da porte separate. Solo la parte più forte della mente e del corpo si riunirà in un tutt’uno).

Ogni capitolo di gioco si svolge a una profondità diversa del Palazzo, ognuna caratterizzata da determinati motivi estetici.
Le mappe svolgono alla perfezione il loro compito di costituire un ulteriore elemento di difficoltà al proseguimento, in quanto sopperiscono all’evidente limitazione della capacità di apprendimento dell’intelligenza artificiale nemica. Ambienti estremamente labirintici ed enormi, sviluppati su più piani, sia orizzontalmente che verticalmente. È facile perdersi, come è facile distrarsi per ammirare lo spettacolo visivo in cui ci spostiamo di continuo senza tregua. Osserviamo in estasi lo stesso Palazzo che cerca di assassinarci in modo ossessivo e subdolo. Non ci sono percorsi migliori, esiste solo la possibilità di sbagliare, attirando più attenzione del dovuto, con gli Echo che possono rappresentare una minaccia infallibile quando si raggruppano. Divide et impera, questo deve essere il tuo modus operandi.
Echo immerge il giocatore in un’atmosfera tesa, al punto da risultare terrificante in alcuni frangenti, tanto è forte l’ansia che si viene a creare. Questo avviene perché, mai come in questo gioco, il peso delle scelte è sentito da parte di chi gioca. Le conseguenze riguardano noi stessi, non un personaggio terzo immerso in una narrazione che noi aiutiamo a proseguire restando però spettatori di essa. L’immedesimazione in En è estremamente forte, grazie al lavoro di amalgamazione tra meccaniche di gioco e design dell’esperienza in toto.
Assumendo un punto di vista analitico, inoltre, si scopre anche la natura essenzialmente ludica di questo titolo, che traduce i concetti di difficoltà e di sandbox in una maniera tutta nuova, come nessuno aveva mai fatto finora. Anziché farci prendere dall’ansia per proseguire, nulla ci vieta di prenderci il tempo che ci occorre a testare l’intelligenza nemica in tutte le combinazioni di situazioni possibili, prendendoci gioco di essa (o finendo vittima di essa). Da questa prospettiva, il gioco è uno spasso.
Echo è una perla che nessun appassionato di videogiochi dovrebbe lasciarsi perdere, rappresenta una speranza per il futuro dello sviluppo dell’industria. Sarebbe bello vedere un seguito del titolo o comunque nuovi esperimenti che vadano ad approfondire le capacità di apprendimento dei nemici, ottenendo esperienze più stratificate, dinamiche e reattive. Echo è un perfetto esempio di come può essere sfruttata la potenza di calcolo delle macchine che oggi gli sviluppatori hanno a disposizione, senza dover rinunciare alla veste grafica, che fa la sua ottima figura anche su console. Echo è il gioco che non ti aspetti, che ti sorprende di continuo.
Ho potuto giocare Echo grazie a un codice inviato dagli sviluppatori, Ultra Ultra.
The Witcher 3: Wild Hunt è stata per me una delle esperienze più coinvolgenti degli ultimi anni, sebbene presenti alcuni problemi struttuali che ho analizzato altrove.
Di conseguenza, non ho potuto che gioire all’annuncio di ben due espansioni dedicate al terzo capitolo della saga, una delle quali decisamente corposa e ricca di contenuti. L’amore e la passione viscerale per il gioco base mi hanno però spinto a giocare in maniera decisamente particolare questi due contenuti digitali, ripulendo quasi totalmente lo schermo da interfacce grafiche ed extradiegetiche. Ho dunque deciso sì di analizzare Hearts of Stone e Blood & Wine, ma con l’appunto necessario di un’analisi “viziata” da un approccio diverso e non comune al suo mondo di gioco e al suo game design, a cui dedicherò un articolo a parte.
Occorre inoltre precisare che il contesto in cui analizzerò le due esperienze è quello di un contenuto successivo ai fatti e agli eventi di The Witcher 3, seguendo l’ordine di pubblicazione. Dato che gli eventi narrati cambiano in relazione al momento in cui deciderete di giocarli rispetto ai fatti di Wild Hunt, ritengo necessario precisare che il loro significato e la loro valutazione potrebbero cambiare radicalmente in base a quando il giocatore deciderà di avviare il contenuto.
The Witcher 3: Heart of Stone
A causa del clamoroso successo dell’ultimo capitolo della saga, spesso ci si dimentica del fatto che The Witcher 3 costituisce solo il finale (forse) di una saga decisamente ricca di personaggi e storie. Hearts of Stone rappresenta un deciso ammiccamento ai fan di vecchia data, dato che recupera concetti e personaggi molto cari a chi segue le vicende dello Strigo dal primo, lontano capitolo. In totale controtendenza rispetto al gioco base, Hearts of Stone offre una sceneggiatura breve e concisa, dalla struttura decisamente più semplice e sintetica, e quindi più apprezzabile e godibile. La storia recupera molti topoi della letteratura di genere, con un personaggio il cui ruolo è per noi chiaro fin da subito, ma che per Geralt rappresenta inizialmente solo un mezzo per riuscire nel suo intento. Affidandosi a quest’ultimo, per una serie di vicissitudini lo Strigo si troverà costretto a esaudire una serie di desideri apparentemente impossibili da soddisfare. Tramite numerose peripezie, ci troveremo involontari spettatori di una serie di drammi umani che Geralt si limita a osservare da esterno, potendo intervenire solo nell’ultimo, concitato momento.
Sebbene il design delle missioni risulti più conciso e diretto, sarebbe forse stato necessario un ulteriore snellimento. È davvero snervante che ogni singola missione si spezzetti ulteriormente in altre decine di sottotrame, spesso risultanti in lungaggini prive di un qualche arricchimento dei personaggi o del mondo di gioco. L’alternanza dei toni e dei temi aiuta decisamente a superare queste barriere, poiché il racconto riesce a passare con una certa coerenza dalle atmosfere horror al thriller, passando dalla commedia.
Rispetto al gioco principale, la cura nei combattimenti contro i nemici più importanti è evidentemente più marcata, con dinamiche interessanti e strutturate, sebbene lontane dall’esaltare particolarmente il sistema di combattimento.
Il mondo di gioco rappresenta un’ulteriore espansione della già estesa regione del Velen, in una zona che era però quasi totalmente esplorabile nel gioco base. Alcuni nuovi contratti e qualche zona d’interesse contribuiscono ad arricchire il contenuto di quest’espansione, senza però aggiungere davvero nulla di rilevante, anzi: ciò che poteva cambiare le regole del gioco, ossia l’infusione delle rune permessa dal fabbro di Ofier, risulta inutile rispetto alla durata della storia, che finisce prima di poter iniziare a sperimentare con queste nuove meccaniche.
In definitiva, Hearts of Stone esplora forse gli elementi più deboli dell’opera CD Red, ossia dialoghi, design delle missioni e sistema di combattimento, mettendo da parte invece le sue caratteristiche più esaltanti e che ne hanno determinato il successo: il mondo di gioco.
THE WITCHER 3: BLOOD & WINE
Blood & Wine è esattamente l’opposto di Hearts of Stone: una sceneggiatura sicuramente interessante lascia però ben presto il passo a un mondo di gioco persino più studiato, dinamico e interattivo di quello base, che riesce a sorprendere per qualità visiva e di scrittura.
Esattamente come The Witcher 3, Blood & Wine racconta una storia facilmente criticabile, per dialoghi, ritmo e resa complessiva. La scelta di ricorrere all’open world per una storia così concitata e dai ritmi così sostenuti è controproducente, perché divide le aspettative e la volontà del giocatore, combattuto tra il desiderio di esplorare e gli obblighi contrattuali. Dopo Wild Hunt, speravo in una sceneggiatura più distesa e ritmata, ma purtroppo veniamo calati in una storia decisamente inadatta alla meccanica scelta. Esempio forse principe di questo conflitto è l’evento che cambia totalmente la città più grande del Touissant, Beauclair: da un lato, veniamo spinti ad agire per porre fine alla tragedia, dall’altro risulta conveniente a livello ludico ed esperienziale esplorare la città in lungo e in largo, per scoprire anche solo delle rese visive che altrimenti rischieremmo di perdere, e il gioco purtroppo ce lo permette. Blood & Wine propone anche alcune boss fight abbastanza ispirate, ma ricorre anche alla peggiore di tutte per chiudere il suo racconto, una scelta alquanto infelice. Rimane apprezzabile la più marcata natura GDR di questo microcapitolo della saga, che presenta non solo più finali, ma anche delle secondarie scritte in maniera più dinamica e rispettosa delle scelte del giocatore.
Detto questo, dopo Wild Hunt dall’opera CD Red non ci si aspettavano di certo dialoghi maturi o sceneggiature ben scritte, ma un mondo di gioco capace di catturarci nel suo essere credibile e ricco, interessante e pieno di microstorie, il vero fiore all’occhiello degli scrittori polacchi. Da questo punto di vista, Blood & Wine fa persino meglio del fratello maggiore, sotto ogni punto di vista.
Partiamo da Beauclair: i due più gravi problemi del Velen erano rappresentati da Novigrad e Oxenfurt. Due città spesso asfissianti, troppo piccole rispetto alla resa visiva, e con un level design eccessivamente giocoso e poco rispettoso di ciò che Wild Hunt aveva mostrato fino a quel momento. Beauclair è invece un trionfo visivo, non solo a livello meramente estetico ma anche narrativo, poiché riesce a descrivere persino i quartieri e i suoi contesti sociali con le architetture, i costumi e le attività dei cittadini. Mentre Novigrad e Oxenfurt erano totalmente innavigabili senza mappa, Beauclair è in grado di descriversi talmente bene da permetterci di esplorarne i segreti in totale libertà dopo qualche ora di gioco. Inoltre, grazie alla sua verticalità, il colpo d’occhio sulla sua estensione e sui suoi livelli lascia sempre senza fiato, aiutandoci a intuire la posizione dei nostri obiettivi e dei luoghi che vogliamo raggiungere.
Blood & Wine aumenta la già ottima varietà di situazioni ed eventi presente in Wild Hunt, aggiungendo accampamenti di banditi particolarmente numerosi, obiettivi secondari che modificano il paesaggio (Lebioda) e con la solita, maniacale cura nella ricostruzione del mondo di gioco. Se è presente un accampamento di banditi, lì intorno ci saranno altri gruppi pronti a correre in aiuto; se in una cava ci sono dei lavori in corso, saremo in grado di seguire il percorso dei rifornimenti dai vari villaggi fino alla zona degli scavi; se un relitto affiora dai fondali di un lago, state pur certi che lì intorno potrete scoprire qualcosa che vi faccia capire come è accaduto il disastro. Sebbene molti aspetti possano essere ulteriormente limati, oltre a dei giochismi spesso eccessivi, è innegabile che l’opera degli sviluppatori polacchi sia infinitamente più curata, ragionata e immersiva della stragrande maggioranza dei concorrenti contemporanei, con un mondo di gioco pensato finalmente per essere soprattutto “mondo” e poco “gioco” (al contrario di Horizon: Zero Dawn).
La sensazione di stare esplorando un vero e proprio regno è palpabile e costante, riusciamo a creare un percorso logico tra le strutture e le vicende in cui ci imbattiamo, ed essere riusciti a ricreare per la quarta volta (Bianco Frutteto, Velen e Skellige) un mondo del genere inscrive definitivamente CD Red tra studi che più hanno saputo cogliere il concetto di interazione immersiva, in un open world.
I potenziamenti vengono esaltati dalla durata del gioco, che ci permette di esplorarne le potenzialità un po’ più a lungo dell’espansione precedente, e la scelta di creare una “base” per il Witcher sembra apparentemente scontata e mal gestita, ma in fin dei conti è solo un piccolo arricchimento che serve anche a chiudere un discorso e un percorso narrativo iniziato nel gioco principale, se non dal primo capitolo della saga, con un dialogo che sintetizza anche il nostro punto di vista sulla storia dello Strigo.
La scena finale del gioco, che rappresenta la chiusura di un cerchio durato oramai più di un lustro, rompe la quarta parete e ci saluta con un semplice sguardo, accompagnandoci dopo centinaia di ore tra combattimenti, esplorazioni e scoperte. Ammetto di essermi commosso in quel momento, inaspettato e decisamente personale, emotivamente toccante.
Blood & Wine esalta dunque le maggiori qualità dell’opera base, non riuscendo a risolvere i problemi strutturali di Wild Hunt ma evidenziando ancora una volta come la filosofia d’approccio all’open world di CD Red sia decisamente vincente.
In un mondo videoludico fatto di realtà virtuali in tre dimensioni, con mappe gigantesche e arricchite da architetture imponenti, spesso siamo portati a girare la telecamera in ogni direzione, per scattare la migliore delle foto, o per controllare il percorso da seguire. Ma oggi è difficile trovare un gioco che ci chieda davvero di studiare attentamente ogni componente dello scenario, e che lo faccia senza indicarci, con icone o segnali evidenti, come utilizzare quel passaggio o quello strumento, come arrivarci e perché farlo. Invertendo questa tendenza, Dishonored 2 sembra quasi venire fuori da un altro tempo: ogni suo dettaglio serve non solo a esaltare la potenza di una direzione artistica che si riconferma semplicemente perfetta (davvero, nulla è fuori posto, dalle architetture alla palette cromatica, passando per il sonoro), ma ricorda anche al giocatore che i suoi straordinari poteri piegano e rimodellano il mondo di gioco, assoggettandolo al volere di Corvo (o Emily, dipende dalla scelta che avrete fatto a inizio gioco). YAOZ
Da questo e da tanti altri punti di vista, Dishonored 2 quasi non ricorda un Tripla A, tanto sembra rimanere fuori dagli schemi produttivi e creativi dell’industria: un gioco dedicato solo ed esclusivamente al perfezionamento tecnico del giocatore, privo di modalità competitive o online, di collezionabili funzionali a una longevità fittizia, e che non si appoggia a un open world pieno di secondarie inutili e fuori contesto. In tal senso, è esemplare come persino il famigerato “Occhio dell’Aquila”, nato con la serie di Assassin’s Creed e poi ripreso praticamente da ogni grande produzione videoludica degli ultimi anni, qui costituisce solo uno dei potenziamenti, e mai con lo stesso peso e impatto che questa meccanica ricopre in tanti altri titoli. Arkane Studios sceglie di sfidare il giocatore su pochi ma precisi elementi, esaltandoli come solo Dishonored ha dimostrato di saper fare, negli ultimi anni.
Tecnica e level design: queste sono le parole d’ordine che costituiscono l’impalcatura che sorregge il nuovo capitolo della serie Arkane Studios. La combinazione dei vari livelli di progressione dei personaggi, tra poteri, abilità fisiche e amuleti, unita a un design dei livelli costruito per essere affrontato nei modi più disparati, rendono l’esperienza sia profondamente appagante da un punto di vista puramente tecnico, sia esaltante dal punto di vista esplorativo. Arkane Studios riesce (di nuovo) a cogliere le due anime dell’industria, unendole senza però portarsi dietro le colpe che le varie formule hanno ormai acquisito agli occhi degli utenti, nel corso degli anni: né un’esperienza su binari, priva di ricompense esplorative, né un open world puro, carente di ritmo e tensione. Al contrario, Dishonored 2 offre un approfondimento dei livelli dalle mille sfaccettature, ricco sia nelle ricompense che nella micronarrativa che riesce a celare a un primo sguardo. Al contempo, non si perde in futili ricerche estranee al nucleo narrativo principale, ma le approfondisce, arricchendo l’impalcatura generale.
È forse proprio per raggiungere questo scopo che Arkane Studios rinuncia a una sceneggiatura particolarmente esaltante, che in realtà nella struttura ricorda quella di tanti altri giochi simili del passato, a partire da BioShock: di cattivo in cattivo, di livello in livello, fino al nemico finale. Tutto prevedibile, tutto talmente scontato da infastidire, anche per l’estrema banalità dei personaggi, veri e propri stereotipi riconducibili direttamente ai temi dei singoli livelli: tecnologia, industria, magia, medicina.

Le missioni secondarie sono sempre legate alla principale, rendendo varie e libere tutte le sessioni, di partita in partita.
Per fortuna, Arkane Studios sa condire questa sceneggiatura insipida con delle vere e proprie folgorazioni per il giocatore: ancora una volta, lo studio francese demolisce in tal senso le convenzioni videoludiche, distruggendo i preconcetti e le abitudini del giocatore, che rimane estasiato dalle conseguenze che le sue scelte hanno sul mondo di gioco. E forse è questa la più grande delle conquiste di Dishonored 2: continuare sul tracciato già segnato dal precedente, esaltando al massimo le capacità del giocatore, in aree costruite appositamente per restituire una sensazione di potenza dovuta non solo all’uso clamorosamente divertente e appagante dei poteri e delle armi, ma soprattutto grazie al peso di ogni azione.
C’è stato un momento del gioco che mi ha lasciato senza parole, in tal senso. Mi ero appena teletrasportato miracolosamente su dei tubi di scappamento, fuggendo da falchi umanoidi meccanizzati con due lame al posto delle braccia. Sotto di me, il vuoto; sopra, il nulla; dietro, la morte. Potevo solo andare avanti, verso un piccolo spiazzo appena visibile, che sembrava senza vie di fuga. Dietro un barile, però, intravedo un’apertura, e attraverso di essa noto uno spiraglio dal quale osservare un’enorme stanza circolare, popolata da altrettanto giganteschi soldati meccanizati. Avendo appreso (grazie all’esplorazione del livello) che i sensori dei robot sarebbero impazziti una volta “decapitati”, dopo aver mozzato la testa di uno di essi da lontano, sono ritornato indietro, sicuro ormai di aver fatto perdere le mie tracce. Dopo circa trenta secondi, una scritta mi avvisa della morte del boss del livello. Come era possibile? Non avevo fatto nulla! Eppure, il “mio” robot si era fatto strada fino al boss, uccidendo lui e la sua scorta.
Scene simili, e conseguenze simili, sono la quotidianità, in Dishonored 2 (come nel predecessore). Risolvere un enigma può farti saltare un’intera zona, costituita da vari livelli e con tonnellate di storie e missioni da svolgere al suo interno. In un caso specifico, si può persino scoprire il boss prima che sia il gioco a dirtelo, tramite un’indagine, e agire di conseguenza. In Dishonored 2 posso, finalmente, evitare i loro dannati sproloqui, dove spiegano ogni minimo dettaglio fino allo sfinimento. Scelte e conseguenze esplicite e implicite, con un peso specifico nettamente superiore a quello di tanti altri titoli che fanno della scelta un valore fondante, solo apparentemente.

Vi diranno di giocarlo solo in stealth, ma in realtà il gioco nasconde una varietà straordinaria anche nel combattimento a viso aperto.
Purtroppo, però, quando si tratta di legare questi contenuti tra di loro, e renderli coerenti o ricchi da un punto di vista tematico, anche Dishonored 2 si perde in scelte poco significative o ridicole per contesto e resa finale. Il modo in cui Arkane Studios decide, di nuovo, di rendere i concetti di Bene e Male è imbarazzante, così univoco e netto da far sembrare gli eventi del gioco poco più di uno spettacolo di marionette. Se da un lato infatti la scrittura dei dialoghi e di alcuni personaggi aiuta a modellare un Corvo e una Emily che rispecchiano il modo in cui i giocatori decidono di scriverli, dall’altro la contrapposizione netta tra “non letale” e “letale” mortifica tutta la straordinaria costruzione di scelte esplicite e implicite di cui prima. Il giocatore “cattivo” sarà quello che avrà deciso di ricorrere in maniera più libera a una tecnica, ad esempio, non potendo prevedere le conseguenze del suo utilizzo in un caso specifico. Il fatto poi che il giocatore venga premiato con un esito “buono” nel caso in cui preferisca la tortura alla morte (un episodio specifico del gioco) è esemplificativo dell’approccio semplicistico che gli sviluppatori hanno dedicato al tema. Inoltre, lo schema riassuntivo delle prestazioni del giocatore, che compare alla fine di ogni livello, si basa esclusivamente sui criteri precedenti, rendendo sempre più le giocate successive una questione di calcoli logici (“Per ottenere questo devo fare questo”) invece di un flusso costante dettato dalle esigenze e dai singoli sottolivelli. Tutto ciò spinge inoltre il giocatore a spremere il più possibile dal gioco, che a volte purtroppo si presta a degli exploit che rendono il tutto molto semplice. Anche a difficoltà più alta, ci sono delle combinazioni di poteri e amuleti che rendono alcuni livelli molto più facili del previsto, spingendo il giocatore a esplorare in maniera meno ansiogena delle zone costruite per essere gustate centimetro per centimetro.
Dishonored 2 è dunque l’esaltazione massima della libertà del giocatore, che si costruisce un percorso, un piano, una serie di approcci, basati tutti sullo studio di livelli che si schiudono al suo passaggio. Dishonored 2 è anche un trionfo di potenza e tecnica, un’opera dove il concetto di “combo” viene completamente riscritto. L’ultima fatica di Arkane Studios è anche un eccellente contenitore di storie, eventi, personaggi e vicende dall’ampio respiro, che stimolano il giocatore con un folklore stratificato, vario e ricco. Purtroppo, Dishonored 2 si ferma qui: quando tenta di affrontare qualcosa di più grande, quando mette in scena tematiche più complesse e profonde, crolla sulla sua straordinaria giocosità. Eppure, al secondo capitolo dell’oramai storica serie non serve dire più di quel che mostra: un capolavoro di movimento e azione, che esalta il giocatore in ogni sua mossa, capace di affrontare le convenzioni videoludiche e abbatterle con la potenza della sua libertà.